Pasquale Barbella ha fatto la storia della pubblicità italiana, portando i livelli qualitativi della comunicazione pubblicitaria a vette che si sono fatte notare anche fuori dai nostri confini.
Come ogni copywriter, non posso che essere un suo ammiratore, ed è con grande rincrescimento che ho osservato la sua uscita di scena dal mondo delle agenzie, circa 6 anni fa.
Ma Pasquale non ha smesso di farci avere messaggi, in forma letteraria o per mezzo di contributi come questa lettera, da lui rivolta a Giampaolo Fabris il quale – colpito dall’incisività delle sue parole – ha ritenuto di pubblicarla online (naturalmente autorizzato).
E’ straordinario come le righe di Barbella infilino come perle tutti gli aspetti del disagio della comunicazione d’impresa, da tutti i punti di vista coinvolti.
Da quello del comunicatore, chiamato a veicolare messaggi ormai privi di ogni credibilità, a quello della corporate responsability verso la società in cui la marca agisce, da quello della brand reputation (molto in voga in ambiente Internet con il soprannome di online reputation) a quello del consumatore, con la sua sacrosanta insofferenza per le ridicole performance di marche ultrapubblicizzate.
E tutto questo a cosa porta? Al mancato passaggio di testimone alla nuova generazione, come si capisce leggendo la lettera.
Nella loro semplicità, i concetti di Pasquale appaiono incredibilmente forti, perché mettono in luce la follia comunicativa che pervade gli atteggiamenti di tutta la nostra community, da chi crea i prodotti a chi li propone sul mercato, da chi ne pensa la comunicazione a chi dovrebbe recepirla.
Cito qualche passaggio:
Ma come faccio a comprare qualcosa che mi alletta alla pag. 12 del giornale e mi scandalizza nella pagina finanziaria, o addirittura nella pagina di cronaca? Perché dovrei prendere sul serio quella banca che osa cantare e ballare la pachanga in un momento come questo?
Vado personalmente a fare la spesa al supermarket e “punisco” le marche che offendono la mia sensibilità, anche quando la qualità del prodotto è fuori discussione.
E ancora:
In tanti settori le aziende hanno interrotto qualsiasi tipo di rapporto diretto con il “consumatore” delegandolo ai cosiddetti call center: dopo l’outsourcing della produzione abbiamo avuto l’outsourcing dei servizi e infine l’outsourcing delle garanzie e delle responsabilità. Questo io lo chiamo alto tradimento nei confronti del “consumatore”, e chiuderei un occhio solo se servisse a generare o a mantenere un accettabile livello di occupazione e benessere; ma ho imparato che così non è.
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